Bene, è ora.
E’ passato più di un anno e non ne ho mai scritto. Ne ho parlato molto, forse ne parlo ogni giorno. E ogni giorno non mi rendo conto che sia già passato un anno. Un anno da quando ho lasciato il Senegal. E no, non ci sono stata un anno. Ho trascorso lì trenta giorni, trenta lunghi e veloci giorni.
Giorni intensi di occhi pieni.
Bene, dunque è ora di scrivere qualcosa a tal riguardo. Mi ritrovo a scrivere pressoché obbligata, ho ricevuto un amorevole e veritiera richiesta che mi chiede di scrivere cos’ho vissuto.
E’ passato un anno e ora sono in Belgio. Mi trovo a Bruxelles da sola. Attorno a me il silenzio, l’ordine e la quiete. La via della casa in cui abito è desolata. Tante piccole casette a schiera che si appoggiano l’una sull’altra senza dire una parola. Mi sto ancora chiedendo se sono l’unica ad abitare qui.
Ecco appunto, il silenzio. Inizierei da qui, dal silenzio che qui popola le mie giornate e che lì, a Pikine Est, alle periferie di Dakar era solo una lontana utopia. Vivevo con altri due compagni in un asilo per bambini, in mezzo alle lunghe vie di questa periferia… Quando ci immaginiamo una via immaginiamo l’asfalto, i segnali stradali, magari le macchine. Un’immagine del genere, però, appartiene al nostro immaginario. Lì le ‘vie’ erano di sabbia giallo arancio, ed erano piene di persone. Bambine, bambini, giovani, anziani, tutti erano lì. Calessi, taxi, macchine, bus si mescolavano – e mi confondevano per le strade principali.
Quando ho deciso di andare in Senegal, o come diciamo ‘noi’ (noi chi? noi europei? noi bianchi?) in Africa, volevo semplicemente fare un’esperienza diversa. Volevo vedere qualcosa di diverso, volevo assaggiare qualcosa di diverso, volevo conoscere qualcosa di diverso. Non avevo aspettative, non sapevo niente. Non mi ero informata di nulla, ero troppo impegnata a non farmi domande e a fingere di essere tranquilla innanzi agli altri.
Cos’ho fatto lì un mese? Formalmente sono stata in Senegal per un progetto di cooperazione internazionale del nostro coordinamento Cipsi che si occupava di immigrazione illegale.
In realtà ho visto, ho guardato, parlato poco e pensato molto.
Ho visto molti bambini correre da me e chiamarmi ’toubab’ – bianca.
Ho visto molti bambini – i talibè – chiedere elemosina.
Ho visto un piccolo bambino piangere perché ero – e sono – bianca.
Ho visto bambine molto più grandi dei compagni maschi nella stessa classe – perché avevano iniziato la scuola dopo.
Ho visto donne bellissime con vestiti colorati.
Ho visto molte donne piegate a terra a lavare, a spazzare e prendersi cura della propria casa.
Ho visto molte donne vendere spezie, menta o manghi per pochi centesimi lungo le strade.
Ho visto molti ragazzi e uomini reinventarsi in tutti i modi per crearsi un lavoro.
Ho visto un ragazzo che non voleva parlarmi perché pensava che fossi francese o americana. Non lo potevo capire, diceva.
Ho visto la poligamia e ho pensato che talvolta non è molto diverso nella nostra società.
Ho visto una famiglia aprirmi la porta di casa quasi ogni sera per ospitarmi a cena. Li ho visti preparami uno sgabello la prima sera. Li ho visti ridere quando mi hanno dato un cucchiaio per mangiare. Li ho visti felici quando non ho più usato né lo sgabello né il cucchiaio per sedermi a terra e mangiare con loro.
Ho visto immensi baobab guardarmi e rimanere imperturbabili.
Di tutte queste cose che ho visto coi miei occhi dai tetti degli edifici, dai finestrini dei taxi e dalle strade di sabbia, conservo un enorme orgoglio e amore. Non posso esprimere a parole ciò che ognuna di queste piccole cose ha scavato in me.
Mi hanno fatto capire quanto il nostro essere ‘europei’ sia un qualcosa che diamo per scontato. Centinaia di anni di colonizzazione ci hanno fatto credere che ciò che è diverso non ha il diritto di essere e pensiamo – inconsciamente – che si debba adattare a noi.
Ma quando viviamo in mezzo a ciò che noi consideriamo ‘diverso’ capiamo che forse il ‘diverso’ siamo noi.
E che in fin dei conti ognuno è il ‘diverso’ dell’altro.
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