“Programmi per il prossimo anno?”
“Sì, andrò a studiare a Pechino” – così rispondevo a chi mi chiedeva cosa avrei fatto nei mesi a venire.
Da quando ho saputo di essere stata selezionata per svolgere alcuni mesi presso una delle migliori università della Cina non ho fatto altro che prepararmi al meglio. Una vera e propria immersione nella storia cinese cercando di capire almeno un po’ il mondo che mi avrebbe ospitata. Tutte le persone con cui parlavo si dimostravano interessate: la Cina veniva vista come il nuovo mondo o per lo meno come una realtà da conoscere.
Tutto è andato per il meglio finché a metà gennaio vedo il volto di mia mamma incupirsi guardando il telegiornale. “Virus sconosciuto sta ammalando la popolazione cinese” – dice la giornalista. Come al solito tento di sminuire le parole del tg e suggerisco di aspettare per non farsi prendere da inutili allarmismi. Subito mi metto in contatto con amici che vivono in Cina, non sembrano preoccupati e decido di comprare il biglietto per partire e chiedo il visto.
In poche settimane, però, i contagi aumentavano e le risposte tardavano. Tutti mi chiedevano cosa avessi intenzione di fare e io non lo sapevo.
Sarei dovuta partire a metà febbraio ma due settimane prima della mia partenza l’Università di Pechino è stata chiusa e hanno disdetto il mio soggiorno. “Meglio così – alcuni mi hanno detto – Immagina se fossi stata messa in quarantena lì”. Sì, è vero. La quarantena sembrava qualcosa di spaventoso e lontano.
Nel mentre la mia università mi ha proposto un altro scambio internazionale, questa volta con Mosca, in Russia. Ho accettato, avevo voglia di studiare all’estero ma intanto portavo nel cuore il sogno della Cina. Mi dispiaceva molto per Pechino e soprattutto per il popolo cinese: chissà le conseguenze – pensavo. Quello che pensavo io non era forse quello che pensavano molti miei connazionali che aprivano la bocca, o la tastiera, senza aver adeguatamente ragionato. In queste settimane molti cinesi sono stati discriminati e molti si chiedevano perché il nostro Stato non abbia immediatamente chiuso le frontiere ai cinesi.
Poi, circa una settimana fa il paradigma è cambiato: i contagi in Italia sono aumentati e non erano cinesi bensì italiani ad ammalarsi e contagiarsi l’uno con l’altra. In pochi giorni Lombardia e Veneto hanno iniziato ad essere considerati zone rosse e noi ci siamo ritrovati ad essere dall’altra parte: quella della quarantena, quella ad essere rifiutata.
Da una parte scuole, università, teatri e palestre sono stati chiusi e ci hanno sconsigliato di frequentare luoghi affollati. Dall’altra, molti stati hanno cancellato i voli da e per l’Italia, altri mettono in quarantena più o meno volontaria tutti i viaggiatori o lavoratori provenienti dalle “zone focolare” italiane, cioè noi. Allo stesso modo, la Russia stessa sta chiudendo le frontiere agli italiani. Così, non sono andata in Cina perché lì era zona rossa e ora non posso andare in Russia perché vengo da una zona rossa.
Cosa ci insegna questa breve storia sul mio non-viaggio? Dobbiamo stare attenti a sentirci dalla parte dei giusti, dei belli e dei sani. Dobbiamo stare attenti a proclamare la chiusura delle frontiere “agli altri”, perché è un attimo che ci troviamo noi dalla parte della quarantena.
Sicuramente la questione del Coronavirus è più complessa di quello che può sembrare dalle mie poche righe ma tutto questo ci ricorda che l’essere umano è molto fragile.
Siamo tutti collegati: dalla Cina all’Italia siamo tutti sulla stessa barca.
Francesca Cassaro
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